lunedì 26 marzo 2012

Meno critiche e più esempi!

In questi giorni di passione in cui si continua a discutere con forza di riforma del mercato del lavoro, agitando il famoso spauracchio che l'abolizione dell'Art.18 dello Statuto dei Lavoratori (targato 1970) favorisce i licenziamenti facili, torna con grande forza il vero problema italiano: il rinnovo. In particolare, mi riferisco al ricambio generazionale. Che il nostro non è un paese per cambiamenti, riforme o addirittura rivoluzioni è sotto gli occhi di tutti così com'è altrettanto evidente che questo è un paese per vecchi. A qualsiasi osservatore esterno, l'Italia appare infatti come un paese che privilegia le fasce di età più adulte a scapito delle giovani. Dal sistema delle pensioni alla tutela, costi quel che costi, del proprio posto di lavoro, ogni indizio del pianeta Italia conferma questa tesi. Il tutto mentre le nuove generazioni, cui per decenni si sono prospettati guadagni e condizioni di vita migliori rispetto al passato, si vedono strappare via un'opportunità dopo l'altra a causa delle ingessature di cui le vecchie generazioni non desiderano liberarsi. E' comprensibile quanto sia difficile rinunciare ai vari privilegi accumulati nel corso del tempo. Dopo tutto a cadere sotto le grinfie della maledetta abolizione dell'Articolo 18 non sono mica i tanti giovani che un contratto a tempo indeterminato non sanno nemmeno cos'è, ma quei tanti lavoratori che oggi possiedono molte, forse troppe, tutele rispetto alla loro produttività. Una tutela minima va garantita a qualsiasi lavoratore, questo sia ben chiaro. Sono conquiste irrinunciabili e tipiche di un welfare moderno. Ciò che però è diventato intollerabile è la presenza di certi feticci che le vecchie generazioni faticano a seppellire. E tra questi totem vi è la partecipazione dei giovani alla vita pubblica. Non è un segreto che i giovani stentino a trovare una collocazione nel mondo del lavoro per via dei troppi e confusamente distribuiti meccanismi di protezione sociale (sussidi di disoccupazione, cassa integrazione ordinaria e straordinaria, assegni familiari e indennità varie); allo stesso modo, le elevate rendite di posizione guadagnate nel tempo da una certa fascia di uomini politici (di donne nemmeno a parlarne) sono tali da impedire un necessario ricambio generazionale nella vita pubblica italiana. 

Un giovane può sbagliare ed essere più inesperto rispetto ad un vecchio. Può essere meno pragmatico e più superficiale. Può anche avere una visione della vita più fluida e veloce rispetto ai tempi dei cari genitori, zii e nonni. Eppure, se fin qui siamo arrivati non è certo per colpa di noi giovani "inesperti". Noi giovani "inesperti" abbiamo soltanto ereditato questo stato di cose. Ecco perchè quando qualche adulto ci apostrofa come "dilettanti", soffermandosi più sul fatto che essere giovani non significa necessariamente essere bravi, mi sento di rispondergli con la frase che più di tre secoli fa scrisse il filosofo francese Joseph Joubert: "i giovani hanno più bisogno di esempi che di critiche". E in quanto ad esempi, cari genitori, zii e nonni, negli ultimi decenni non ve la siete cavati benissimo.

AV

venerdì 23 marzo 2012

Non c'è democrazia senza società civile


Da sempre la  filosofia politica moderna si è occupata del concetto di socità civile. Da Hobbes ad Hegel, passando per Comte e Marx, qualunque filosofo abbia trattato di politica ha affrontato l'argomento cercando di pervenire ad una definizione, come tradizionalmente accade in filosofia. Riassumere i vari approcci nei confronti della materia sarebbe impossibile, data la brevità che richiede uno strumento come il blog. E però a mio avviso, l'approccio di Hegel alla definizione di società civile è quello più interessante, specialmentee quando il filosofo di Stoccarda ci parla del concetto di soddisfazione dei bisogni. 
In effetti è proprio così. Chi se non la società civile è più adatta a rappresentare e soddisfare i bisogni della cittadinanza. Se guardiamo alla società d'oggi, la lezione hegeliana è quanto mai attuale. La società civile è infatti un attore intermedio essenziale tra il singolo cittadino e le istituzioni, un anello di congiunzione tra due mondi troppo distanti. I partiti, a cui è stata storicamente demandata questa funzione, hanno fallito in quest'opera di rappresentazione degli interessi, sia a livello locale che nazionale. Obsoleti ed autoreferenziali, le formazioni politiche così per come le conosciamo oggi non rispondono più alle esigenze della società contemporanea. Non dico che i partiti non servano più e non siano importanti all'interno di una democrazia, ma il mondo è molto più vario di come i partiti ci insegnano a rappresentarlo, almeno in Italia. La dialettica dei guelfi contro i ghibellini, dei comunisti contro i fascisti, dei bianchi contro i neri, non regge più. Quella narrazione della società è finita. Lo hanno capito bene gli scandinavi, i tedeschi e i popoli nordeuropei in generale, così come gli americani. Destra e sinistra esistono solo per convenzione, perchè dietro quelle due macrocategorie c'è una galassia di realtà. Movimenti, associazioni, professioni, sindacati e imprese. Per questi paesi tutto quello di cui è fatta una società è degno di essere ascoltato e di essere consultato preventivamente in merito alla governance. Diventa un bisogno più che una legge o un'imposizione. E' come se si trattasse del bisogno di far sentire i propri bisogni. Quei bisogni o necessità di cui ci parlava Hegel e che qualunque società emancipata e libera ha bisogno di esprimere e di vedere soddisfatti. Purtroppo, sono in molti a parlare di società civile descrivendola come una mera espressione alla moda, di recente scoperta. Ma è un pò come chi un secolo fa faceva fatica a digerire la parola democrazia. Oggi sarebbe impensabile vivere senza democrazia. Ci vorrà forse un altro secolo, ma verrà il giorno in cui sarà impensabile per chiunque la vita di una comunità senza l'apporto della società civile.

AV

giovedì 22 marzo 2012

La nuova costituzione ungherese non piace alla giustizia europea.

Dopo l’approvazione della nuova costituzione da parte del Parlamento ungherese lo scorso 30 dicembre, la Commissione europea decide il 17 gennaio di aprire tre procedure d’infrazione per altrettanti provvedimenti contenuti nella riforma costituzionale. Budapest risponde entro i 30 giorni previsti. Il 7 marzo Bruxelles decide di continuare l’iter di due delle tre procedure d’infrazione. Adesso, il governo ungherese ha altri 30 giorni di tempo prima che la Commissione deferisca alla Corte di Giustizia europea il paese governato da Viktor Orbán.

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sabato 3 marzo 2012

Pecorella

Il NO TAV Bruno Marco mentre provoca un carabiniere in servizio d'ordine in Val di Susa
Ieri mentre mi trovavo per lavoro a Genova, ho anche avuto il tempo di fare un giro per le vie della città. Genova è fantastica. Le sue vie strette, le edicole votive erose dall'aria salmastra, la sua cucina povera e le sue atmosfere che a tratti mi ricordano la Turchia occidentale. Genova sa di città come Smirne, che con la sua torre dell'orologio sembra ricordare la lanterna di Genova, o di Istanbul, che con il suo quartiere di Galata porta ancora impressi i segni della colonizzazione genovese. Poi ti guardi intorno e vedi che a insozzare le mura di questa splendida città ci sono molte, forse troppe, scritte. Alcune di queste recitano: NO TAV. Una scritta che campeggia ovunque ormai in Italia da Milano a Roma. E' come se dalla Val di Susa fosse partita una crociata che sta invadendo tutto il paese. Una marcia ideologica che ha lo scopo di impedire che quell'opera che vuole perforare le Alpi "distrugga" la vallata.   Per chi invece ha iniziato i lavori della TAV anni fa pende come una spada sulla testa la grande colpa di non aver ascoltato prima il parere della gente della valle. Non tanto perchè sarebbe cambiato il risultato (la TAV si sarebbe fatta comunque) ma perchè almeno si sarebbe evitato lo scontro frontale tra istituzioni e popolazione locale. Il dialogo ed una comunicazione più soft sulla realizzazione dell'opera non avrebbero infatti portato a tutto ciò. Il diritto a manifestare è sacrosanto per una democrazia che voglia definirsi tale, ma è ormai troppo tardi. Le manifestazioni sono diventate proteste e le proteste sono diventate a loro volta scontri. L'ormai famoso "pecorella" del provocatore della valle è infatti il simbolo di chi  anzichè manifesta provoca, cercando lo scontro a suon di insulti. "Pecorella" è la prova regina di ciò che avviene dietro le quinte delle tante forse troppe manifestazioni che immobilizzano l'Italia. Il "pecorella" di oggi è lo stesso "pecorella" di ieri che racconta mio padre, quando da giovane agente di polizia in servizio d'ordine a Milano era costretto - così come il carabiniere in Val di Susa - a subire gli insulti e le provocazioni della piazza che a suon di sputi inveiva contro la polizia. Quarant'anni dopo, noi italiani siamo costretti ad assistere sempre e solo alle stesse scene.

AV