martedì 28 febbraio 2012

Il lobbying sbarca anche in Italia

Ormai da quasi un anno a questa parte, la parola lobby e il termine lobbying sono entrati di diritto a far parte del vocabolario televisivo e giornalistico italiano. Nessuna contezza è stata però data sull'essenza di questa professione, spesso denigrata e descritta come sporca o come sinonimo di affarismo. Fortunatamente, il governo dei tecnici e dei professori ha mostrato molta attenzione al tema delle lobby. D'altronde, un esecutivo nato per "salvare il paese dal baratro" e soprattutto per svecchiarlo non poteva che mostrarsi interessato al fenomeno delle lobby e alla sua regolamentazione. Sapere in maniera trasparente e pubblica che a Palazzo Chigi può accedere, su appuntamento, il responsabile delle relazioni istituzionali di Pirelli così come quello di Finmeccanica, credo faccia dormire sogni tranquilli a tutti. Il problema della trasparenza delle lobbying è infatti una questione di democrazia e di civiltà. E' il segnale di una società che non ha bisogno di nascondersi, di interessi economici che possono essere tutelati alla luce del sole. L'1 febbraio, il Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, Mario Catania, ha reso trasparente l’attività delle lobby nei confronti del suo dicastero grazie alla creazione di un registro dei lobbisti ammessi. L'ufficio di presidenza di Palazzo Madama nella giornata di martedì ha invece approvato le linee guida che confluiranno nel regolamento «per sistemare meglio l'accesso dei lobbisti in parlamento», come ha dichiarato lo stesso Presidente Schifani durante la sua visita in Commissione Industria. Schifani ha concluso dicendo che «il parlamento deve essere lasciato in pace mentre lavora». Ovviamente, lasciare in pace il Parlamento non significa escludere i lobbisti dal processo decisionale ma includerli in esso. E per farlo non serve solo un registro. Serve una rivisitazione di quel vocabolario televisivo e giornalistico che vede nel lobbista e nelle lobby un male assoluito.Un lobbista invece è, non tanto un rappresentante di interessi soggettivi legati a un entità, ma un consulente vero e proprio per i lavori parlamentari. Si tratta di un contributo utile a migliorare una materia o a disciplinarla secondo esigenze più rispondenti alla realtà e meno ai formalismi arcaici cui il nostro paese è troppo abituato. 

AV

domenica 5 febbraio 2012

The Iron Lady

La locandina del film The Iron Lady
In questi giorni è nelle sale cinematografiche il film The Iron Lady, con la bravissima Meryl Streep nei panni della Lady di Ferro, come venne battezzata l’ex premier britannico Margaret Thatcher dai sovietici. Prima donna premier nella storia del Regno Unito, la Thatcher è una delle figure più controverse dell’Europa postbellica. I suoi detrattori l’hanno sempre accusata di ultraliberismo, di aver messo in campo politiche a vantaggio dei ceti più abbienti e di aver usato il pugno duro contro le fasce più povere. E poi l’asse con il presidente USA, il repubblicano Reagan, che fece dei due i campioni del neoliberismo cinico in quegli anni ’80 in cui l’Italia macinava debito pubblico che sarebbe costato caro alle attuali generazioni. Eletta nel ’79, la Thatcher si fece carico di un paese disastrato dall’inflazione, dalla crisi petrolifera degli anni ’70, e pervaso dai continui scioperi dei sindacati. The Iron Lady diede il via ad una stagione di riforme che fino ad oggi incidono positivamente sulla vita dei cittadini di Sua Maestà. Liberalizzazioni e privatizzazioni massicce, ma anche la riforma di servizi pubblici come l’NHS, il servizio sanitario nazionale inglese, un modello di sanità pubblica efficiente. Persino il laburista Blair, dopo quasi 20 anni di governo conservatore (Thatcher-Major), si guardò bene dallo stravolgere le riforme “thatcheriane”.

Eppure, quelle riforme non furono indolore. Proteste, attentati, scontri, feriti e vittime. Anche se in condizioni diverse, l’Italia di oggi ricorda un po’ l’Inghilterra degli anni ’80. Un’economia stagnante, un paese vecchio e fatto di privilegi dai costi insostenibili. Manca il coraggio di crescere ed essere competitivi. Le famose liberalizzazioni con cui tutti si riempiono la bocca da anni, nessuno vuol farle. Non si possono scontentare le categorie che si trincerano dietro il loro status quo mentre il Titanic affonda, altrimenti alle prossime elezioni non ti votano. Per fortuna, abbiamo un governo che non deve farsi rieleggere, l’unico in grado di avere il coraggio sufficiente per mettere in campo quelle dure riforme, che tanto malcontento generarono nel Regno Unito. L’attuale governo è stato chiamato per svecchiare il paese, per salvarlo dal baratro del debito pubblico, per ammodernarlo, e le liberalizzazioni fanno parte di questo processo. Chi oggi si oppone alla loro realizzazione è un nemico della libertà – come ci suggerisce la stessa radice della parola. Libertà di comprare un servizio piuttosto che un altro, libertà di scegliere al prezzo a me più conveniente, libertà di avere tutti le stesse opportunità. E perché no, libertà di poter cambiare lavoro, anche se ciò deve essere il frutto di una libera scelta e non della scadenza di un contratto. Per fare tutto ciò bisogna però avere coraggio. Il coraggio di non ascoltare i lamenti del malato mentre gli si somministra l’amara ma necessaria medicina. È un coraggio necessario. Un coraggio che capì bene Margaret Thatcher e quanti all’epoca la votarono per ben tre volte come leader del loro paese. Alla fine il malato inglese guarì. E questa è storia. 

AV