lunedì 23 maggio 2011

Da Milano a Napoli. Da Roma a Paternò.

Pisapia anticristo, Napoli ai femminielli e ai trans, le zingaropoli, La Mecca dei gay, Milano Stalingrado d'Italia. Tranquilli, non è il turpiloquio o il delirio di un folle, ma soltanto il linguaggio deciso dal centro-destra per le campagne elettorali di Napoli e Milano. La capitale del sud e quella del nord si sono infatti ritrovate a diventare due luoghi importanti anche per i precari equilibri politici della nazione. Berlusconi stesso aveva trasformato la tornata elettorale appena conclusasi in un referendum sulla sua persona. Ma non è solo questo ad aver fatto di queste due città dei luoghi essenziali per decretare la vittoria ora di questo ora di quello schiaremento. Le problematiche che affliggono da tempo le due città come rifiuti, criminalità organizzata, viabilità, immigrazione e inquinamento, sono infatti fattori da non sottovalutare. E tuttavia, il modo con cui si è deciso di rispondere alle esigenze, o problemi che dir si voglia, di queste grandi città è stato il forse malriuscito tentativo di imbastardire il linguaggio politico con atteggiamenti e codici che vanno dalle squallide manifestazioni fuori dai tribunali per difendere ora questo ora quell'interesse, fino alle inesattezze tirate fuori dal cilindro più per macchiare l'immagine dell'avversario che ad onor del vero. 

Detto ciò, si comprende bene come il centro-destra abbia potuto perdere le elezioni al primo turno. Un sindaco uscente che perde, come ha fatto a Milano la Moratti, o il fallimento palese di una classe dirigente (come quello che riguarda il centro-sinistra a Napoli) che non riesce a far trionfare l'altra parte politica (il Pdl di Cosentino), sono infatti segnali che qualcosa non ha funzionato, al di là del risultato finale del 30/05.

Adesso, a freddo, viene spontaneo chiedersi a chi abbia giovato quello squallore verbale. Sicuramente al deserto di idee che circonda chi decide un approccio di questo genere alla politica, oltre a chi intende seguire l'avversario in questa scelta. Va inoltre fatta un'altra domanda: la gente è stanca di questo linguaggio? Forse un pò lo è. Lo dimostra il voto di Milano che ha portato al ballottaggio un Pisapia - magari carente dal punto di vista dell'esperienza amministrativa - ma comunque in grado di minare la credibilità dell'operato del sindaco di una città che, oltre ad essere la città di Silvio Berlusconi, è anche il simbolo dell'asse Lega-Pdl e di questo governo. Lo dimostra anche Napoli dove l'outsider De Magistris riesce a giocarsi la partita del ballottaggio, laddove le due alternative erano la continuità con la gestione Bassolino/Iervolino oppure quella di un partito il cui presidente deliberatamente annunciava lo stop alle ruspe per l'abbattimento di case abusive, in quella che è la patria dell'abusivismo: «Domani nel mio incontro con i cittadini di Napoli farò vedere che ho pronto il provvedimento che sospenderà gli abbattimenti delle case» (Berlusconi, Radio Kiss Kiss Napoli, 12/5/2011). 

Ora che il centro-sinistra è rimontato dopo anni di sconfitte, sembra facile gridare al lupo al lupo, agitando lo spauracchio delle zingaropoli, dei femminielli e dei comunisti al governo. L'onere della prova spetterebbe a chi ha governato per quasi un decennio il paese sia nelle amministrazioni locali che nel governo centrale. Va dimostrato di aver fatto meglio di queste ipotetiche zingaropoli e Stalingrado d'Italia. Il problema è che non sembrano esistere esempi virtuosi da opporre, da Roma a Paternò (tanto per citarne una).

AV

venerdì 6 maggio 2011

Obama Bin Laden

La morte di Osama Bin Laden rappresenta un duro colpo ad Al Quaeda e al terrorismo internazionale. E' come se fosse stata tagliata la testa al serpente. Tuttavia, l'equazione per cui uccidi il capo di un'organizzazione criminale e automaticamente hai distrutto quell'organizzazione è assolutamente fuori luogo. Se questo fosse vero, fenomeni come la mafia o il narcotraffico sudamericano si sarebbero già estinti, mentre di fatto le mafie e il crimine organizzato si sono sempre reinventati di fronte ai duri colpi ricevuti.

Il problema qui diventa un altro. E risiede tutto nella capacità - spesso dagli esiti fallimentari - di trasformare ogni evento (guerre incluse) in qualcosa di mediatico o potenzialmente tale. Indimenticabile il countdown di Vespa a Porta a Porta nel 2003, alla vigilia della guerra in Iraq. Si contavano i minuti allo scadere dell'ultimatum lanciato da Bush al rais di Bagdad, quasi fosse capodanno. Peccato che i botti che di lì a poco avrebbero sparato erano bombe in grado di provocare miglia di vittime, civili e non. Alla luce di questa continua mediatizzazione degli eventi, la cattura di Bin Laden e la sua eventuale morte diventano oggetto di discussione per l'opinione pubblica di tutto il mondo, soprattutto per i non addetti ai lavori. Tra gli occidentali Bin Laden era diventato il simbolo del terrorismo di matrice islamica e quindi del male assoluto. Un simbolo che negli ultimi anni era stato dimenticato. Tantissime le speculazioni su una sua presunta morte o malattia. Sulla sua figura, che da anni non lanciava i consueti proclami succeditisi a decine dopo il fatidico 11/9, aleggiava da tempo un certo mistero. Era diventato quasi terzo rispetto alle guerre che dal crollo delle Twin Towers in poi si sono succedute. Una terzietà generata non dal suo effettivo ruolo (che c'era ed era rilevante), ma dal racconto televisivo che è stato fatto in questo periodo dai mass media di mezzo mondo, espressione di un establishment politico ed economico indiscutibile.

A questo punto, l'uccisione di Bin Laden sembra quasi come uscire il coniglio dal cilindro. Mentre in tutto il Medio Oriente infiamma una ancora non chiara primavera democratica, la Libia rischia una guerra civile per anni, Hamas stringe accordi con Fatah e la guerra in Afghanistan è lontana dall'esser vinta, la cattura dello sceicco del terrore sembra dare man forte alle posizioni perse in questi anni dagli americani e dagli alleati occidentali. Casualità? Chi lo sa. Sposare la linea complottista non è sempre salutare. Tuttavia, la costruzione mediatica di questo evento - non andata poi a buon fine, visti i falsi di fotografie circolati sul web e la premura con cui ci si è sbarazzati del corpo dell'uomo - non può di certo fermare quei tanti interrogativi che avvolgono ancora il punto cui è giunta la strategia americana in Medio Oriente. Da anni (o forse da sempre) non è dato sapere nulla all'opinione pubblica mondiale se non scoop e propaganda. Una previsione però la si può azzardare. Certo i contesti e le condizioni sono completamente diversi. Ma se è vero che la storia si ripete, sembra quasi di assistere  a quanto accadde all'Unione Sovietica  prima del crollo a cavallo tra gli anni '70 e '80, quando perdeva la sua presa sui paesi satelliti e sull'intero sistema da lei creato.

Analisi a parte. Come ha giustamente fatto notare ieri il principe del foro americano, il celebre avvocato Alan Dershowitz, in un'intervista a corriere.it, è stato un grave errore la mancanza di totale trasparenza su quanto accaduto durante il blitz ad Abbottabad e su cosa sia stato fatto esattamente col corpo di Osama Bin Laden. La pubblicazione delle foto del cadavere tanto annunciata e mai pervenuta. Il modo sbrigativo in cui gli americani si sono sbarazzati del corpo dello sceicco. La prova del DNA di Osama. Tutti errori che di fronte ad una regia mediatica potenzialmente impeccabile sollevano i polveroni dei cospirazionisti, ormai titolati a parlare dal gran regista di tutta l'operazione: Barack Obama. Peccato che questi errori non facciano altro che il gioco dell'altra metà del campo. Che il presidente americano non fosse tanto ferrato in politica estera lo si sapeva da prima della sua elezione. Ma in questo caso, siamo davvero al dilettantismo politico.

AV